giovedì 12 agosto 2010

MORTE DELL’INQUISIZIONE (di Amelia Crisantino - Repubblica)




In un libro di Vittorio Sciuti Russi la storica decisione di Ferdinando, re ammirato nell’Europa della ragione

IL BORBONE ILLUMINISTA CHE MISE FINE AGLI ORRORI

di Amelia Crisantino

C’è stato un momento in cui tutta l’Europa colta parlava della Sicilia. E - per una volta - non per criticarla. Gli intellettuali ne erano incuriositi e l’additavano come esempio, nelle corti si lodava il coraggio del suo re. La regina, poi, veniva descritta come amica degli illuministi e dei massoni. Una vera sovrana dalla mente libera, che esprimeva le sue opinioni senza aspettare il permesso del confessore.
Ferdinando e Maria Carolina erano giovani, si presentavano alla ribalta internazionale con un gesto eclatante: in Sicilia avevano trovato il coraggio di cancellare il tribunale dell’Inquisizione, erano i nuovi campioni della lotta contro l’oscurantismo. Il futuro avrebbe provveduto a deludere le attese ma nel 1782 - ’anno in cui l’Inquisizione di Sicilia viene abolita - i Borbone di Napoli hanno tutte le carte in regola. Non solo per figurare fra i riformatori, ma per essere indicati come modello da imitare.

Uno studio dello storico Vittorio Sciuti Russi su “Inquisizione spagnola e riformismo borbonico fra Sette e Ottocento” (edito da Olschki, 371 pagine, 39 euro)
Ricostruisce con molta cura il dibattito europeo sulla soppressione del "terrible monstre", facendoci quasi entrare nel crescendo culminante il 16 marzo 1782. Quel giorno, Ferdinando firma un decreto abolitivo molto argomentato: il sovrano si richiama alla purezza della religione cattolica nell’Isola, dove mai avevano messo radici le eresie professate in Europa, e accusa il Tribunale di operare con procedure segrete contrarie al diritto comune. Il decreto - che era un modello anche di "buona comunicazione" - riepilogava gli ultimi avvenimenti. Da Napoli, la monarchia aveva chiesto che venissero riformate le procedure segrete che rendevano temibile il Tribunale, e l’Inquisitore generale aveva opposto un diniego. L’ultimo Inquisitore era un palermitano, nella testimonianza di numerosi viaggiatori figurava come uomo tollerante e affabile. Ma, compreso nel suo ruolo di Inquisitore generale, Salvatore Ventimiglia dichiarava al Re che "l’inviolabilità del segreto" era l’anima dell’Inquisizione e si irrigidiva nelle sue posizioni: il Tribunale non era riformabile, "sarebbe meglio opprimerlo che cambiar la forma della processura". Il decreto reale parlava tutt’altro linguaggio, adoperava parole che esprimevano la più matura cultura giuridica illuminista: per il re, gli abitanti del Regno di Sicilia non potevano "ingiustamente restare oppressi", ed era un dovere della sovranità procurare che vivessero "liberi da ogni timore di violenza".

A Palermo, ad accogliere ed esaltare le decisioni sovrane troviamo il viceré Domenico Caracciolo. Il quale celebra la cerimonia dell’abolizione come una solennità civile, coinvolge le più alte cariche del Regno e si porta appresso anche il marchese di Villabianca: quasi come un cronista, direttamente nella sua carrozza per fargli osservare tutto dalla prima fila. E nei Diari Villabianca dettagliatamente tramanda gli avvenimenti, le parole di Caracciolo e gli umori degli invitati; sino a scrivere "ce la spassammo tutti facendo corte alla persona del principe". Unica preoccupazione, che la "real clemenza" di Ferdinando mantenesse nei loro stipendi gli impiegati di quello che - negli ultimi tempi - era sembrato più un carrozzone di sottogoverno che un terribile tribunale. Villabianca segue le vicissitudini dei licenziati, ce le racconta: alcuni mantennero intero lo stipendio, altri ebbero il mezzo soldo. Con le rendite della soppressa Inquisizione si istituirono quelle che Domenico Scinà avrebbe chiamato "tre cattedre vistose": si finanziò l’insegnamento della fisica sperimentale, della matematica e dell’astronomia. Dove prima venivano consumati i roghi dell’Inquisizione, si pensò a impiantare un Orto Botanico.

Era un altro mondo, quello della ragione, che metteva le sue radici. Scrive Sciuti Russi che, nell’Europa dei Lumi, la soppressione del Tribunale siciliano rinvigorì la fiducia nel trionfo della ragione. La cerimonia di Palermo era stata celebrata il 27 marzo e dopo soli tre giorni, da Roma, Pietro Verri annunciava al fratello che il viceré Caracciolo aveva ottenuto dal sovrano la cancellazione del Tribunale. Nell’Europa colta Caracciolo era più conosciuto di re Ferdinando, e a lui venne dato il merito di una scelta che ribaltava l’immagine dell’isola. La ricostruzione storica avrebbe mostrato che si trattava di decisioni prese alla corte di Napoli, ma era stato il viceré a dargli risonanza internazionale: era bastata la lettera - riportata da Sciuti Russi in appendice al volume - in cui raccontava al suo amico d’Alembert cos’era accaduto, pubblicata sul “Mercure de France” del primo giugno 1782 e poi ripresa da altri giornali e libri. L’opinione pubblica internazionale mostra la sua forza laica e il riformismo dei Borbonedelle Due Sicilie era ovunque riconosciuto e ammirato, diventava un modello per l’Europa.

A Palermo intanto, abolito il Tribunale, tutti gli interessi sono puntati sulle sue carte. Cosa fare di un archivio che contiene le prove di tante complicità, crimini e diffuse connivenze? Lo stesso Inquisitore generale suggerisce di rendere eterno il silenzio, bruciando le carte assieme ai simboli del Tribunale. Ferdinando risponde ordinando di trasferire a Napoli l’archivio segreto. A questo punto i siciliani tergiversano, poi finiscono per appigliarsi a un argomento sempre decisivo: "l’ingente spesa che v’abbisogna".
Le carte piene di "scabrosissime materie", rischiavano di divulgare quanto con tanta cura si era mantenuto segreto. E come speciale grazia fu chiesto di "poter mandare alle fiamme coll’ultima circospezione tutte le carte". Così il 27 giugno 1783, più di un anno dopo l’abolizione ufficiale, un grande falò consumava la memoria storica del Tribunale. Bruciavano carte che - nelle parole del marchese di Villabianca - Dio liberi se fossero commerciate, era lo stesso che infettare e imbrunire di nere note molte e molte famiglie di Palermo".

Amelia Crisantino
Giornalista di Repubblica redaz. Palermo e ricercatrice storica

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