venerdì 25 marzo 2011

La Pirofregata Borbone



di Armando Donato
Messina, 26 marzo 2011

La marina militare borbonica di metà Ottocento era una delle più efficienti e moderne d’Europa, infatti la cantieristica e l’ingegneria navale borbonica avevano raggiunto insieme alla progettazione e produzione delle artiglierie, un avanzato livello tecnologico; vasta era infatti la produzione negli stabilimenti di Pietrarsa, nei cantieri di Castellammare di Stabia e nella Real Fonderia e Barena di S.M. il Re delle Due Sicilie (diretta dal ten. col. Mori). Non è infatti un caso che la neomarina militare italiana nacque grazie alle navi borboniche.

Un esempio eloquente è quello della pirofregata di primo rango Borbone, modernissima nave ad elica, tipica del periodo cosiddetto di transizione tra la propulsione velica e quella a vapore. La pirofregata Borbone infatti era dotata di alberatura e nello stesso tempo di apparato termico ausiliario.
Fu varata nel gennaio 1860 su progetto di G. De Luca, e presentava lo scafo in legno di quercia di Calabria con carena ramata e dimensioni pari a 68 metri di lunghezza, 15 di larghezza e 7 di pescaggio.
La stazza era di 4000 tonnellate, mentre la macchina motrice Mudslay & Field sviluppava una potenza di 1000 cavalli che la spingevano ad una velocità di 10 nodi. L’armamento consisteva in due ponti (uno scoperto e uno coperto) a batteria con 8 pezzi rigati (a dimostrazione che la rigatura dei cannoni non era un‘esclusiva piemontese), 12 pezzi lisci da 72 libbre a bomba, 26 da 68 a bomba e 4 da 8 in bronzo.

La Borbone nell’estate del 1860 faceva parte del cospicuo gruppo di temibili navi da guerra che pattugliavano lo stretto contro le sortite garibaldine sulla sponda calabra, nell’agosto dello stesso anno infatti, al comando del C.F. Flores, bombardò i presidi garibaldini del Faro, provocando feriti e affondando naviglio vario. In un’altra occasione tentò invece di speronare la corvetta a ruote Tuckery, ovvero la ex pirofregata borbonica di secondo rango Veloce, consegnatasi all’amm. Persano nel luglio del 1860.

Passata alla marina sarda nel settembre 1860 fu ribattezzata Giuseppe Garibaldi partecipando al bombardamento delle Piazze di Ancona nel settembre 1860 e Gaeta nel febbraio 1861, mentre il mese successivo entrò ufficialmente nella regia marina italiana subendo nel tempo varie modifiche, ridenominazioni e classificazioni. Assolse ed espletò diversi compiti e servizi sino al disarmo e la demolizione avvenuta nel 1899. La Borbone fu la prima nave militare ad elica costruita in Italia.

Armando Donato
Vicepresidente CSS Sicilia

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Messina 1860 - L’imprevisto fallimento dei piani garibaldini di sbarco in Calabria e il decisivo aiuto inglese


di Armando Donato
Messina, 25 marzo 2011

Nel luglio 1860, col facile ingresso garibaldino a Messina senza combattimenti a causa di accordi vari, l’area di Capo Peloro fu scelta quale piattaforma logistica, punto di attracco dei convogli navali e di concentramento di truppe, rifornimenti, artiglierie che via via affluivano e si accampavano in attesa dello sbarco in continente, tramite varie barche e circa undici navi acquistate, ammutinate o catturate.

Garibaldi predispose dunque i piani per approdare in Calabria, che dovevano consentire l’atterraggio di piccole teste di sbarco sulla costa, partendo dalla punta del Faro e dai canali che collegano i pantani di Ganzirri al mare, ripuliti e usati come nascondiglio per le barche e altro materiale. Ciò consentiva di approdare in punti morfologicamente vantaggiosi per infilarsi nel mezzo delle difese nemiche e conquistare gli obiettivi principali, ovvero i presidi di Torre Cavallo e Altafiumara in modo particolare. Le operazioni infatti dovevano essere effettuate all’interno di uno specchio d’acqua di ridotta larghezza. Tuttavia la situazione politica era complicata, con varie iniziative da parte borbonica, piemontese e francese (e la pseudo neutralità inglese) per impedire a Garibaldi di metter piede sul continente. Nel frattempo la Sicilia era nel caos governativo e già soggetta ai primi atti dittatoriali, mentre erano già nati vari partiti con differenti idee circa il da farsi.

Anche la situazione militare per l’esercito garibaldino in riva allo stretto era più complessa del previsto. Infatti l’obiettivo era come affermato di attraversarlo, conquistare i presidi sulla sponda opposta, assicurando le operazioni di traghettamento dell’esercito e proseguire la Campagna sulla penisola. Garibaldi aveva però almeno in parte sottovalutato la difesa navale e costiera borbonica, la quale secondo i piani non avrebbe dovuto creare problemi. Egli confidava e si cullava sulle rassicurazioni di Cavour, circa la mancata difesa da parte borbonica e la protezione della squadra navale sarda (che però non accennò mai nessuna azione contro la marina nemica) del viceamm. Persano, il quale aveva mandato a Messina tre sole navi al comando del conte Albini, con istruzioni di “stretta neutralità apparente, protezione di fatto occorrendo”, affermando che secondo gli accordi con alcuni comandanti borbonici, la presenza delle navi sarde sarebbe bastata a impedire le azioni delle navi borboniche, da intendersi comunque poco incisive e pronte al disimpegno al primo problema.

In merito alle operazioni nello stretto di Messina è infatti significativa la frase contenuta in un lettera scritta il 9 agosto dal Cavour al Persano, che recita “il problema che dobbiamo risolvere è questo: aiutare la rivoluzione, ma far si che al cospetto d’Europa appaia come atto spontaneo. Ciò accadendo, la Francia e l’Inghilterra sono con noi, altrimenti non so cosa faranno”, e ancora “mi si assicura d’altronde che il generale non troverà ostacolo durante lo sbarco, stante il contegno della marina napoletana”.
E’ bene anche ricordare che all’epoca il controllo totale dello stretto di Messina doveva inevitabilmente basarsi sullo schieramento di batterie poste sui due contrapposti fronti a mare, in modo da poter coprire le varie distanze, con l’ausilio del naviglio armato che completava la sorveglianza dell’area. Senza il controllo delle due sponde la difesa garibaldina della costa era soggetta ai cannoneggiamenti di disturbo e potenziali sbarchi nemici, mentre il successo delle azioni di attacco era messo in crisi dal pattugliamento navale e dalla difesa costiera nemica. Primario quindi l’obiettivo dei garibaldini di approdare in Calabria per consentire le successive attività di traghettamento. Il comandante garibaldino Rossi confermava ciò sostenendo che ”padroni del Faro da un lato, la presa di Altafiumara assicurerà il transito dell’esercito, impedendo col fuoco dei due forti di fronte, l’avvicinarsi delle navi di Francesco II”.

Invece Garibaldi nonostante avesse mandato in Calabria i suoi agenti pensando di sistemare le cose senza problemi, si rese ben presto conto che fosse impossibile in quella situazione, controllare lo stretto muovendosi liberamente, infatti le attività di pattugliamento della flotta borbonica, seppur con defezioni e tradimenti come ad esempio quello della pirofregata a ruote di II rango Veloce, erano costanti anche se avrebbero sicuramente potuto essere più incisive e determinanti per il fallimento delle operazioni garibaldine. Il dittatore infatti doveva confrontarsi con un nemico ben organizzato per la difesa antisbarco, forte di vari reparti di linea e di esploratori, fortificazioni, punti di osservazione e decine di artiglierie dislocate lungo tutta la costa calabra dello stretto, la cui sorveglianza era completata da circa 10 moderne navi da guerra borboniche tra pirofregate, pirocorvette e avvisi. Garibaldi non aveva ancora potuto eludere la vigilanza “della numerosa crociera che solcava le acque del Faro”, poiché le navi napoletane erano costantemente in allarme a causa dei potenziali tentativi di sbarco in Calabria, in modo particolare dal 10 agosto. Ciò spingeva a cannoneggiare le imbarcazioni e le batterie garibaldine presso il Faro.

a notte lo stretto era annebbiato dai razzi colorati lanciati tra le fortificazioni borboniche in Calabria o con la Cittadella di Messina, per comunicare e scambiare segnali. Una notte una nave borbonica cannoneggiò le batterie ubicate nei pressi della torre del Faro, ma le granate esplosero fuori bersaglio vicino ad un accampamento angloamericano sede di un club (l’Albion, demolito per ordine dello stesso Orsini, poiché troppo esposto al fuoco navale nemico). La situazione era tale che i militi accampati sulla spiaggia di Faro erano ben consci di poter dormire tranquilli solo se le navi da guerra nemiche non cannoneggiavano la costa, infatti alcuni testimoni riferivano: “i nostri sonni erano tutt’altro che placidi e lunghi, giacché ogni notte c’era gazzarra di cannonate e fuochi di fucileria per parte dei regi che dalle navi e dalle spiagge tiravano contro le nostre barche”. Un ufficiale dei bersaglieri accampato presso la spiaggia del Faro, nel lamentare le pessime condizioni di vita, la scarsa paga la inesistente organizzazione della intendenza e sussistenza, nonché l’indifferenza della gente locale, bollata come rozza, bigotta e immeritevole dei sacrifici dei soldati, scrive in una lettera ”tutte le notti sono allarmi e cannonate, la linea loro è ben fortificata e guardata, l’affare è piuttosto serio ma confidiamo nel nostro generale”. In effetti le condizioni di vita dei garibaldini in loco non erano delle migliori, la situazione era “alquanto penosa“ a causa della mancanza di tende, ricoveri, acqua e la febbre da malaria.

Un altro episodio fu quello relativo al fallito tentativo di abbordaggio del vapore borbonico Trasporto, avvenuto verso la metà di agosto. In tale occasione le barche cannoniere garibaldine partite dal Faro per prendere la nave, furono respinte dalle cannonate dei forti borbonici sulla sponda calabra e della pirofregata a ruote Fulminante. Nello stesso mese un nave inglese proveniente da Malta, carica di munizioni da trasportare in Calabria, fu cannoneggiata e presa dalle truppe borboniche. Non mancò un quasi incidente diplomatico, allorquando il 22 agosto le batterie del Faro fecero fuoco contro un piroscafo francese scambiato per nemico. Nello stesso mese la pirofregata a elica di I rango Borbone, cannoneggiò le posizioni nemiche coi suoi pezzi rigati e lisci a bomba di grosso calibro. Inoltre l’11 agosto era stato programmato, anche se mai attuato, uno sbarco borbonico presso Torre Faro con conseguente attacco alle postazioni.

In base a ciò i principali sbarchi garibaldini effettuati già i giorni 8 e 11 agosto presso la costa calabra, allo scopo di impossessarsi appunto dei presidi di Torre Cavallo e Altafiumara e consentire la partenza del grosso delle truppe rimaste in attesa, ebbero esiti non proprio positivi poiché o falliti oppure con successi parziali, data anche la presenza dei “vapori napoletani che in numero di cinque o sei facevano la più attiva sorveglianza e ricevevano chiunque a cannonate”.
Garibaldi dunque, con tutto l’esercito ormai raccolto in quel di Capo Peloro, convinto di passare facilmente in continente, dovette invece cambiare i piani e fu in sostanza costretto a sbloccare la situazione aggirando le posizioni nemiche e recarsi direttamente in Calabria, in un punto al di fuori dell’imboccatura meridionale dello stretto, luogo senza dubbio più facile per poter sbarcare. Infatti dopo essere tornato in Sicilia dalla Sardegna, per la quale era improvvisamente partito il 12 agosto su un preciso ordine di Vittorio Emanuele II, ritornò in loco il 18 per trasferirsi a Giardini Naxos e sbarcare il 19 presso Melito Portosalvo sulla costa ionica calabrese con circa 4000 uomini.

Ma ciò non fu una sorpresa per la marina borbonica poiché all’arrivo delle due navi garibaldine presso Melito, giunsero sul posto due pirofregate nemiche, le quali tuttavia non impedirono il ritorno verso Messina di una nave con a bordo Garibaldi che cercava soccorsi per l’altra nave che si era arenata sulla spiaggia, cannoneggiata dalle navi borboniche e incendiata da alcuni reparti appositamente sbarcati, mentre le navi bombardavano anche le camicie rosse sulla spiaggia, le quali insieme a quelle riuscite a sbarcare l’8 agosto a nord presso Cannitello e arrivate a Reggio, temendo uno sbarco in forze e la contemporanea reazione dell’esercito borbonico, si erano inizialmente sbandate.
Il 21 agosto fu presa Reggio dopo un aspro combattimento, quindi la notte tra il 20 e il 21 fu attuato lo sbarco delle truppe del col. brig. Cosenz, le quali partite da Capo Peloro a mezzo barche a remi disarmate, protette da cinque barche scorridore armate di un pezzo da 4, riuscirono a sbarcare in parte a Favazzina, tra Scilla e Bagnara. Anche questo sbarco, allo scopo di evitare il tiro costiero ed eludere la sorveglianza navale borbonica, dovette seguire una rotta più lunga per giungere in un punto della costa, questa volta posto fuori dell’ingresso settentrionale dello stretto, più sicuro e utile ad aggirare i presidi nemici. Ma anche in questo caso la marina borbonica con 4 navi tenutesi fuori dal tiro delle batterie di Faro entrate in azione, impedì la perfetta riuscita dell’operazione catturando poi 30 barche, vari marinai tra cui undici ufficiali e un comandante di divisione. Quindi quasi come una manovra a tenaglia le forze di Cosenz sbarcate a nord, dopo alcuni combattimenti con l’esercito regio si diressero verso sud per ricongiungersi con quelle di Garibaldi e Bixio atterrate a Melito e che avendo presa Reggio, stavano avanzando verso nord.

Le due colonne si incontrarono presso Campo Calabro, poco sopra Piale e Villa San Giovanni, luoghi ancora ben armati e presidiati dall’esercito borbonico, il quale nonostante gli sbarchi nemici mantenne anche il possesso dei forti e batterie di Scilla, Torre Cavallo e Altafumara sino al 24 agosto, giorno in cui si arrese senza combattimenti, mentre gli altri consistenti reparti borbonici che sorvegliavano la zona, avevano invece avuto alcuni contatti col nemico insieme a vari accordi e tregue.
Dopo un mese, una volta presi tutti i presidi sulla costa calabra, il controllo dello stretto da parte garibaldina poteva ritenersi completo, nonostante Garibaldi in una lettera del 30 luglio 1860 “manifestasse l’intenzione di passare sul continente prima del 15 agosto”.
Del resto lo stesso Garibaldi quattro anni dopo i fatti, durante un discorso a Londra, ammise che senza l’aiuto del governo inglese e dell’ammiraglio Mundy, non sarebbe stato possibile passare lo stretto di Messina.

Armando Donato
Vicepresidente CDS SICILIA

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mercoledì 23 marzo 2011

La desistenza anti piemontese e il pane scomunicato



La lotta che ebbe a portare tanti ragazzotti sotto il vessillo di Garibaldi, il liberatore, da una tirannide mai così amata, si trasformava di giorno in giorno, in una rivolta inimmaginabile. Le truppe del Re piemontese, arroganti, criminali, dei delinquenti in carriera, portarono la morte e la disperazione in molte comunità del meridione d’Italia. Il popolo duo siciliano, combatteva con ogni mezzo a sua disposizione, facendosi massacrare piuttosto che acquietarsi, sotto i colori di una Italia non voluta.

Una battaglia, mille battaglie questo era il motto di molti rivoltosi che, si udivano nelle contrade e nei paesi, dell’ex regno Borbonico dopo il 17 marzo 1861. La rabbia, l’astio, si comunicava in tanti modi e la popolazione, era la principale oppositrice di questa guerra dichiarata. A differenza di prima, qui la guerra fu palese; la resistenza, scoppiò come unica difesa alla tirannide savoiarda. La repressione militare inferta al popolo del sud, è un fatto storico incontrovertibile.

Con l’entrata in regime, della chiamata alle armi dei sudditi duo siciliani, ci sarà una recrudescenza di livore e di odio, avvertita da ambo le parti sfociata in persecuzione. Entrambe le fazioni, erano determinate ad ottenere la vittoria, con qualsiasi mezzo. In quella fase storica, la barbarie era un metodo e quasi una consuetudine, ma vi sono accaduti dei fatti clamorosi che giustificano la rivolta popolare, esente da contaminazioni individuali e territoriali; in quanto volontà di tutto un popolo, entro i suoi antichi confini nazionali. In una pubblicazione dell’epoca, edita dal giornale napoletano L’Unione, si legge quanto segue:
"gli ufficiali piemontesi dicono qui, di essere altamente detestati, e l’odio delle masse è tale, che basta raccontare un fatto, descritto proprio da un ufficiale piemontese. Alcuni soldati napoletani arruolati per forza e trasportati al distretto di Alessandria, non volendo servire nelle file piemontesi, giurarono piuttosto di lasciarsi morire di fame; il comandante, non potendo per modo alcuno vincere la loro sublime ostinazione, fu obbligato a congedarli per non vederli spiare di fame."Un caso simile a questo fatto, di energica risoluzione, fu quello dei poveri D’Amalfi, che ricusarono di ricevere il pane, distribuito loro, in occasione della festa nazionale del 2 giugno; perché dicevano codesti, era un pane scomunicato.

Se perfino i poveri, erano pronti a rifiutare l’unico bene che possedevano nella vita, quello della misericordia umana, ribellandosi all’abominio, alla giustizia ingiusta, cosa pensate che covasse nell’animo di tutti gli altri: libertà, uguaglianza, fraternità sotto un’unica bandiera, oppure ribellione?
Il sangue di tanti innocenti, fu versato ancora per lungo tempo, come i martiri cristiani, martirizzati per una fede mai doma, mai vinta saranno per sempre ricordati. Per questa fede, furono indicati come ribelli, fuori legge, e in quanto tale indicati briganti. Mentre in realtà erano partigiani, di uno stato che sentivano tale, e che non avrebbero mai più ritrovato.

Alessandro Fumia
fonte: http://zancleweb.wordpress.com/2011/03/16/la-desistenza-anti-piemontese-e-il-pane-scomunicato/

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Gli strumenti di tortura dell'esercito garibaldino



In una seduta parlamentare, il deputato Vito D’Ondes Reggio, discutendo sulla brutalità e sui metodi di alcuni ufficiali piemontesi, i quali arbitrariamente esercitavano il diritto di vita o la pena di morte, deprecava quei metodi incivili.

Essi, al di fuori di ogni ordinamento e della legge costituzionale, con pugno di ferro portavano lo scompiglio, rischiando il sollevamento della popolazione; descrivendo ai suoi colleghi deputati, fatti circostanziati. Ricordando per altro, con quanto piglio marziale, i comandanti e gli ufficiali dell’esercito piemontese perseguivano un fine discutibile.

Arrecando nocumento a gente inerme con lo scopo di raggiungere l’obiettivo prefissato: per tanto, con un nuovo strumento correttivo, una invenzione escogitata da un ex garibaldino in pensione, torturavano con i ceppi ferrati la popolazione indifesa. La trovata, era costituita da due particolari anelli di ferro, forniti di quattro bulloni espansivi cadauno; il torturato avrebbe ricevuto quella gioia ai rispettivi polsi, allungandolo su per due cinghie di cuoio, annodate fortemente agli anelli che avrebbero sospeso in aria il condannato. Allo stesso tempo, alla base dell’ordigno, un patibolo a modo di giunto fornito di buco filettato, accoglieva una lunga vite continua aguzza alla punta, che facendosi strada fra i polsi costretti in quella postura, li avrebbe attraversati dal basso (i polsi) verso l’alto (i palmi delle mani giunte e le falangi). Dunque, questi ceppi, furono uno strumento di tortura richiestissimo dai soldati (da fonte francese si segnala che ne furono costruiti 400 in Piemonte e altre decine nei luoghi di tortura), ritenendolo molto efficiente per due motivi: l’afflitto avendo gli arti superiori posti in tensione sulla testa, una volta ferito non rischiava di morire dissanguato.

Secondo, essendo legato e posto sospeso come un salame, provava un intenso dolore persistente, misto ad infiammazione, quando la vite spingeva sempre più nella carne fino alle ossa. Provocando uno spasmo infinito, per il quale in pochi avrebbero resistito. Il Maggiore Frigerio in quel di Licata, lo ebbe a sperimentare per primo, su una popolazione afflitta per 25 giorni di assedio: privando, dal 15 agosto del 1863 in piena estate, tutto il civico consesso 22000 abitanti, dell’acqua con pena di fucilazione immediata verso tutti coloro che osavano uscire di casa. Secondo il punto di vista militare, l’esperimento era riuscito e con tale obbrobrio, fu esteso a tutta la Sicilia, moltiplicando i supplizi e le morti. Altre fonti segnalavano che i torturati, rei di nascondere i renitenti alla leva e i disertori di un esercito ancora da formare, venivano flagellati prima alle gambe e alle braccia: indistintamente se uomini o donne, se adulti o fanciulli, se andicappati o donne gravide. Tutti venivano malmenati in modo democratico con sevizie senza eguali.

Ma lo scopo era raggiunto? E le torture sarebbero poi cosi efficaci? I soldati piemontesi si accorsero che il popolo taceva; nessuno dei torturati cospirava, nessun nome venne reso per sollevarsi da quella pena. La cosa, invece di fermare quell’abominio, incattiviva ancora di più la truppa e gli ufficiali. Le fonti parlamentari segnalavano: malgrado i tormenti ingiustificati, grazie a Dio, nessuno perì sotto i ferri. Ma i giornali, e molti testimoni fra gli stranieri non furono dello stesso avviso.

Fonti: Diario dell’onorevole Vito D’Ondes Reggio 1863
documentario in lingua francese, a cura di Philippe Francois e Joseph Poli 1865
memorie del generale Giuseppe Govone, a cura di Umberto Govone 1902
Per la gravità dell’argomento trattato, ho inserito alcune delle mie fonti


Alessandro Fumia
fonte:http://zancleweb.wordpress.com/2011/03/17/una-invenzione-garibaldina-i-ceppi-della-tortura/

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Un eroe nei moti del '48 in Sicilia: il dottor Ferdinando Palasciano


In un’epoca in cui, la guerra fratricida fu senza quartiere, si imponeva nella storia, un personaggio notevole. Questo grande uomo, scriverà anni dopo: "bisognerebbe che tutte le potenze in guerra, riconoscessero reciprocamente, i principi di neutralità del combattente ferito per tutto il tempo della cura." Questo fu l’appello, lanciato ai suoi superiori che avevano ammonito i medici al seguito delle truppe napoletane; quando per volontà del Generale Filangeri, si ordinava di non dare ne campo, ne ricovero ai feriti del nemico, previa la pena di fucilazione dei disobbedienti. Ferdinando Palasciano medico chirurgo, nacque a Capua il 19 giugno del 1815 e morirà a Napoli il 28 novembre 1891: durante i rivolgimenti avvenuti a Messina del 1847 – 1848, accadeva un fatto clamoroso, che segnerà nella storia futura un solco indelebile, durante un evento bellico: il riconoscimento di asilo e di cura, di tutti i feriti di guerra anche se nemici. Condannato per alto tradimento e destinato alla immediata fucilazione, per aver contravvenendo a un preciso ordine del Comandante Generale in capo. Posto agli arresti aspettava la sentenza che sarebbe giunta a breve giro di posta dopo qualche giorno: ma, il comportamento che tenne contro i rivoltosi impressionarono fortemente il Re, e pertanto, fu salvato da un decreto speciale, emesso dal sovrano Ferdinando II che lo sollevava da ogni responsabilità. Quando il regno dei Borboni ebbe termine, presentatosi davanti al Congresso internazionale dell’Accademia Pontiniana nel 1861 a Napoli, ricordando cosa ebbe a scrivere al sovrano prossimo alla morte, incalzato dai suoi carcerieri: “i feriti, a qualsiasi esercito appartengono, sono per me sacri e non possono essere considerati come dei nemici.” La sua fama allora crebbe e si propagò fra le valli e le mura delle scuole e delle Accademie europee. Avendogli a riconoscere un ruolo nella costituzione della Carta dei principii del Congresso di Ginevra 1864, ispirando con il suo comportamento i padri fondatori. E allo stesso tempo, in molti lo ritengono, come il precursore, di quell’organizzazione che muovendo i primi passi, si soleva identificare come La Croce Rossa. Da un fatto di sangue che ebbe teatro a Messina, nacque qualcosa di grande, di duraturo, coltivato un poco, da tutti quelli che amano la vita oltre ogni interesse di parte. In questo caso, il sovrano Ferdinando II, etichettato come gretto, e nefasto despota, si mostrò lungimirante e caritatevole non certo, verso un suo ufficiale medico, ma verso quel messaggio che faceva proprio. Gli uomini quando cagionevoli, hanno il diritto della misericordia perchè uguali nel momento del bisogno. Alessandro Fumia fonte: http://zancleweb.wordpress.com/2011/03/18/i-moti-anti-borbonici-scoppiati-a-messina-1847-–-1848-hanno-il-suo-eroe-il-dottor-ferdinando-palasciano/

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Sulla storia dei Camiciotti di Messina (1848)



Aver voluto associare, il sacrificio di intrepidi fanciulli con il risorgimento messinese, ha di fatto, esercitato sull’immaginario delle generazioni di giovani siciliani e messinesi, la convinzione, che accadimenti storicamente fasulli, fossero stati il risultato, di un sacrificio oltraggioso per chi l’aveva commesso. Il sangue degli innocenti sarebbe ricaduto sopra i loro carnefici. In verità, quello che si paventava come il risultato di una carneficina, era un fatto di guerriglia bella e buona.

Non semplici giovani volontari, imbelli ed innocenti, ma reparti di fanteria siciliana, conosciuti ed inquadrati in un vero esercito di resistenza. I camiciotti, cioè la fanteria leggera volontaria, nasce come corpo indipendente di rivolta a Napoli; durante il periodo in cui, i partenopei fedeli alla casa di Borbone, combattevano contro i ribelli Murattiani. Di loro viene ricordato una memoria, legata alla battaglia del Ponte della Maddalena. Erano gente di fatica e di galera, vestiti con lunghi camicioni che si scontrarono presso tale ponte, contro le truppe del generale francese Broussier il 23 gennaio 1799, respingendo in un primo momento l’esercito repubblicano. Dovendo soccombere però, contro una realtà militare molto organizzata e potente. Contemporaneamente, durante la rivolta dei moti 1847 – 48 i siciliani, alzarono i labari della ribellione, recuperando anche essi le insegne, dei reparti di fanteria di volontari, sotto l’appellativo dei Camiciotti con specifico riferimento, a fatti di guerriglia, accaduti mezzo secolo prima a Napoli.

Seguendo la cronaca, riportata in un diario di guerra, di un insospettabile patriota italiano, Luigi Anelli che sarà pubblicata in più volumi l’anno 1864 a Milano, presso la pagina 252 del II volume, intitolato: La Storia d’Italia dal 1814 al 1863, descrive gli accadimenti, successivamente ricondotti dalla propaganda anti napoletana, associati ai camiciotti Messinesi.

…laonde nel mattino succedente, comparendo da ogni banda il nemico, corsero ad affrontarlo. Ma anche nei Napoletani era animo invitto ed il contrasto divenne terribile. Al convento della Maddalena per gli androni e le celle, monaci e cittadini mescolati nella zuffa pugnano e muoiono da prodi; un gruppo di combattenti serrati in mezzo ai nemici, anziché arrendersi, si travolge in un pozzo del convento.
Cosi ché, un fatto di guerra fra truppe regie e truppe regolari dell’esercito siciliano, viene dipinto come oltraggio; un singolo episodio esercitato, dai soldati borbonici contro ignari giovani che anelavano alla Italia, in un periodo storico travagliato e glorioso.


E in molti, abboccano all’inganno, messo su come opera di teatro drammatico, dalla censura e dalla propaganda anti napoletana.
In realtà, i cosiddetti camiciotti siciliani, tutto erano che ignari ed ardimentosi giovanotti. Erano gente fuoriuscita dalle patrie galere pronti a tutto, che a costo della vita, ammazzavano per poco pur di evitare le carceri regie. Inquadrati in una sorta di guardia municipale, erano posti a disposizione del municipio. Così che, oltre all’esercito regolare di Sicilia, esisteva anche, una guardia di ardimentosi divisa in battaglioni denominati appunto, dei camiciotti: a Palermo ne esistevano 6 battaglioni, a Catania 4, a Messina 2 e un solo battaglione a Siracusa.

Alessandro Fumia
fonte: http://zancleweb.wordpress.com/2011/01/25/i-camiciotti-di-messina/

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lunedì 21 marzo 2011

Il Regno che non aveva bisogno di ferrovie fu il primo a costruirle


Anni di revisionismo incontrollato in cui non ci si è mai fermati a consolidare quanto si era scoperto, unito all'immancabile binomio Borbone=arretratezza, danno il pretesto a giornalisti (napoletani) come Angelo Lomonaco del Corriere del Mezzogiorno, di scrivere articoli del tipo "Borbone, il regno delle ferrovie? Falso mito, lo dimostrano i dati Svimez".

Prima di proseguire oltre è necessario fare una doverosa premessa: a che servono le ferrovie e qual'era il loro scopo nel'800?
La rete ferroviaria nacque per mettere in comunicazione città e villaggi dell'entroterra in un epoca in cui l'unico mezzo veloce per il trasporto di cose e persone era ancora la nave, ed il mare la strada più rapida.
Ecco perchè le città più grandi e più sviluppate, da sempre sorgono in riva al mare.


Negli Stati Uniti è leggendaria la ferrovia che, collegando il selvaggio West con la East Coast, consentì un collegamento molto più veloce tra l'Atlantico ed il Pacifico, rispetto alle tradizionali carovane o alla circumnavigazione del continente americano.
E che dire della famosa Transiberiana, sulla quale il regime zarista puntò per collegare S.Pietroburgo con le coste del pacifico passando per lo sterminato territorio siberiano, che altrimenti era raggiungibile solo con lunghi e faticosi viaggi a cavallo o avventurosi viaggi di mare.

Anche in Italia lo sviluppo ferroviario ottocentesco ebbe il suo maggiore successo soprattutto nelle regioni continentali della penisola, in particolar modo in Pianura Padana, dove la capitale del Piemonte, Milano e tutte le più importanti città del Lombardo-Veneto, non avendo sbocchi sul mare, trovarono nella rotaia il modo per aumentare la capacità e la velocità del trasporto delle merci e delle persone.

La ferrovia non ebbe la stessa fortuna nelle parte peninsulare d'Italia, ovvero il Regno delle Due Sicilie, bagnato da migliaia di km di coste.
La vocazione marittima di quello stato infatti determinò lo sviluppo di una delle principali potenze navali del Mediterraneo, cosa che il Piemonte o il Lombardo Veneto con il porto di Venezia, Trieste e Genova non riuscirono mai ad ottenere.

Il merito del Regno delle Due Sicilie non sta tanto nell'aver costruito la prima ferrovia in Italia (e terza in Europa), il più grande stabilimento ferroviario d'Italia (Pietrarsa) e di aver venduto più di una locomotiva al Piemonte; quanto nell'aver fatto tutto ciò in uno stato che aveva puntato tutto sul mare.
Un paragone che possiamo fare oggi, ma a parti inverse: al Sud compriamo bottiglie di salsa Mutti e Star prodotte nelle fabbriche del Nord Italia, nessuno però dice che le coltivazioni di pomodoro in Padania sono pressochè inesistenti, perchè quello che conta è il successo industriale.

Anche Ferdinando II aveva capito che le ferrovie erano un buon mezzo per collegare le città interne del Regno ed una linea che avesse collegato il tirreno con l'adriatico, avrebbe evitato ai viaggiatori la circumnavigazione dello stivale.
Ma ahimè, i fatti del 1860 impedirono questa grande impresa.
Le tratte ferroviare borboniche che furono messe in esercizio e quelle già progettate non prevedevano in nessun caso la concorrenza (peraltro inutile) al trasporto navale, esse infatti coprivano solo tragitti interni, lontano dalla costa.

Davide Cristaldi

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giovedì 17 marzo 2011

Unità d'Italia. Il parlamento istituì i lager per i soldati borbonici.



Il 17 marzo 1861 si sa, fu il giorno in cui il parlamento italiano deliberò per la prima volta a Torino, ragion per cui la stessa data è stata scelta per celebrare il 150° compleanno dell'Unità d'italia.
Ci sarebbe molto da discutere sull'individuazione della data, visto che ancora mancavano all'appello il Trentino, il Veneto e Roma, ma Gaeta e Messina erano cadute ed il Regno delle Due Sicilie era stato già conquistato (eccetto il presidio di Civitella del Tronto), ragion per cui i lavori parlamentari potevano finalmente iniziare.

Il giovane parlamento si dovette però ben presto misurare con le emergenze militari che ancora funestavano il meridione d'Italia tormentato dalla guerra civile.Bande di insorti comoposti da contadini armati ed ex-soldati borbonici guidavano la guerriglia contro l'esercito piemontese ed i suoi fiancheggiatori.
C'era poi il problema di migliaia di soldati rimasti fedeli a Francesco II che di giurare fedeltà a Vittorio Emanuele non ne volevano sapere (uno Dio ed uno Re).

Fu allora che, anticipando di quasi un secolo i campi di concentramento nazisti, il parlamento torinese decise di istituire i primi lager della storia.
Fenestrelle e San Maurizio Canavese, sono nomi ormai tristemente famosi per chi ha avuto modo di scoprire l'altra faccia del Risorgimento.

Questo documento inedito, che riporta la relazione del Senatore Menabrea presentata in Senato il 25 aprile 1862, rivela un Italia ancora in guerra con se stessa a più di un anno dal fatidico 17 marzo, un Italia in cui il Parlamento è costretto ad istituire dei campi di concentramento per internare "gli individui dell'ex-esercito borbonico".

Nel secondo documento inedito, proveniente dagli archivi storici di Fenestrelle, l'atto di morte di "Montalto Michele" un soldato borbonico siciliano ("Castelvitrano, circondario di Trapani") di soli 25 anni, deceduto a Fenestrelle nel 1866. Dopo ancora 5 anni dunque, ex militari del Regno delle Due Sicilie continuavano a marcire e morire presso i lager sabaudi.

Davide Cristaldi

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mercoledì 16 marzo 2011

VOLANTINAGGIO: NOI NON FESTEGGIAMO L'UNITA' D'ITALIA



Cari amici e compatrioti
in allegato un manifesto listato a lutto che riassume in maniera estremamente stringata e con pochi attuali argomenti i motivi per i quali nel Sud, che non ha nulla da festeggiare, la gente vedrà numerose bandiere borboniche abbrunate il 17 marzo.

La forma, anch'essa scarna, è finalizzata alla rapida lettura e comprensione da parte di chi non ha avuto tempo, modo e curiosità di avvicinarsi ad argomenti che, invece, per molti appassionati della Storia del Sud sono arcinoti.
Chi vuole può stamparlo liberamente eventualmente aggiungendo anche il logo della propria associazione meridionalista.
Saluti
La Redazione di Rete Sud

Il volantino è scaricabile qui http://comitatiduesicilie.org/images//volantino-17%20marzo.jpg

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150°Unità d'Italia: Nino Bixio lo stritolatore



In occasione dei festeggiamenti per l'Unità d'Italia, pubblichiamo questo simpatico proclama a firma Nino Bixio, gentilmente messo a disposizione dal Sig. Cristiano Donato Villani, nel quale il patriota in camicia rossa minaccia stermini contro chi ha ingenuamente creduto al vento di libertà che i garibaldini portavano da Torino.

Proclama - il Generale G. Nino bixio agli abitanti dei comuni di Francavilla, Castiglione, Linguaglossa, Randazzo, Maletto, Bronte, Cesarò, Centorbi(Centuripe) e Regalbuto.

La corte di Napoli ha educati una parte di voi al delitto ed oggi vi spinge a commetterlo.
Una mano Satanica vi dirige all'assassinio, all'incendio, ed al furto, per poi mostrarvi all'Europa inorridita e dire -eccovi la Sicilia in libertà-.

Volete voi essere segnati a dito, e dei vostri stessi nemici messi al bando della civiltà?Volete voi che il Dittatore sia costretto a prescriverci "stritolate quei malvagi"
Con noi poche parole: o voi ritornate al pacifico lavoro dei vostri campi e vi tenete tranquilli, o noi in nome della giustizia e della Patria nostra vi distruggiamo come nemici dell'umanità: ci siamo intesi

Bronte 9 agosto 1860, il maggiore generale G.Nino Bixio

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150° In nome del Re d'Italia vi ammazziamo tutti


Estratti da documenti parlamentari d’Italia 1863

A Biancavilla, durante il governo del prodittatore Depretis; si segnala una piccola cronaca dei fatti, annotata in una lettera, letta nella Camera di Torino, negli atti della tornata di gennaio 1861, nella quale si raccontavano le imprese, di un certo Biondi patriota garibaldino che in pochi giorni, ebbe a commettere 27 omicidi, sopra i più agitati proprietari terrieri di quella cittadina, ancora fedeli al Re di Napoli, il rimanente dei quali, circa 50 persone, furono costretti ad indossare indumenti di villici per salvarsi la vita, dal furore di quella gente. A Trecastagni, a san Filippo D’Agira, a Castiglione e a Noto, ci sono state stragi di decine di siciliani fedeli alla casa di Borbone.
Un certo La Porta e Santi Meli di Ventimiglia, erano al comando di brigate fiancheggianti le camice rosse, conosciuti da molti Siciliani come feroci assassini: i quali con molti seguaci, in nome del re d’Italia, portavano seco la morte a tanti civili.
A Palermo si temette una reazione, durante il protettorato del Depretis, dove vi furono indirizzati alcuni battaglioni garibaldini in fretta e furia, provenienti dalle campagne vicino a Messina.

Il 9 marzo del 1861, una banda di 80 assassini, mette la città di Santa Margherita a sangue e a fuoco, massacrando 34 persone. Mentre, nello stesso giorno ad Agrigento, una massa di popolani armati, inneggiando al Re D’Italia, assaltarono le prigioni del Castello, ivi strappandone 36 persone, rinchiusi in quella galera senza processo, in quanto fedeli al Re di Borbone; i quali trascinati nel Vescovado li massacrarono. Giorno 11 marzo, a Resuttana, presso la terra di Caltanissetta, fecero strage nel paese, lasciando sulle pubbliche vie 14 morti. Il 13 marzo un gruppo di banditi presso Palermo, nel nome del Regno d’Italia fa 30 vittime. Il 16 marzo del 1861, nell’agro di Palermo, in pieno giorno, una banda di ex galeotti liberati dai garibaldini, massacrarono 5 fratelli De Caro. Nella stessa sera presso Palermo, 16 fedeli del Re Borbonico, vennero assaliti da bande patriottiche e ferocemente scannati.
In quei giorni nelle campagne di Brancaccio e Ciavelli, vicino Palermo, vi si uccidono in nome della Italia tutta, la Guardia Civica e il curato, incendiando la chiesa parrocchiale e le case dei villaggi vicini. Il 13 marzo 1861 a Mascalucia, si rinnovano gli eccidi di Bronte per la rivoluzione, rovesciando i muri, minacciando i contadini, si ammazzano gli oppositori. Il 14 marzo le stesse scene di massacro, saccheggio ed oltraggio, si rinnovano nel nome del Re D’Italia ad: Aci sant’Antonio, Paternò, e Riposto dove le famiglie nobili, e quelle che si ritenevano fedeli ai Regi, furono assassinate e mutilate.
Innumerevoli sono le declamazioni fatte nel Parlamento di Torino dagli stessi deputati siciliani, nel corso delle sessioni del 1861, contro il governo invasore e non si può sottacere il contenuto adirato di molte petizioni.

Nella tornata del 4 aprile del 1861 n° 53, così declamava il deputato siciliano Bruno:
“il dissesto finanziario dei Piemontesi a danno della Sicilia, affossò le opere pubbliche costruite dai Borboni, trascurate dalla negligenza degli italiani di Torino; si lodano ancora fra i siciliani, le istituzioni della Compagnia delle Armi, creata dai Borboni, sotto il cui governo la Sicilia offrì lo spettacolo, nel quale non succedevano furti per le pubbliche vie, e la gente passeggiava per tutte le strade a tutte le ore, senza paura di essere aggredita e derubata come accade oggi.”
Nella stessa tornata il Crispi segnalava:
“in una provincia sono state saccheggiate le case rurali; incendiata una fattoria, e carcerati innocenti senza processo. Fra la notte del 9 e 10 marzo 1861, la Forza Pubblica circondava una casa e ne uccide il proprietario, senza nessun mandato, perché costui, fu sospettato di borbonismo. Un fatto simile avvenne a Bagheria, uno analogo a Palermo, e in altri luoghi siciliani.”

Sempre il Crispi, ricordava come nel lontano 28 novembre 1860, numerosi prigionieri fedeli ai Regi, furono incarcerati e portati nelle galere di Palermo, dove ancora per l’anno a seguire, marcivano in gattabuia senza processo. Nel corso di un anno, da che si è stabilito il governo di Re Vittorio Emanuele nel circondario di Palermo, sono state ammazzate 200 persone, il cui torto era quello, di essere fedeli ancora a Franceschiello di Borbone.
Nella tornata parlamentare presso la Camera di Torino, del 11 gennaio 1862 il deputato Crispi denunciava:
“il malcontento in Sicilia è gravissimo“. Il deputato Cordova, nella tornata del 15 gennaio 1862, come segnalano gli Atti Ufficiali n° 241, pag. 918 affermava:
“negli uffici doganali di Sicilia, furono nominate persone idiote ed analfabete. In Palermo i doganieri rubano ed in Messina gli impiegati sono uccisi, mentre a Siracusa gli impiegati ospedalieri sono il quadruplo dei malati. Aggiungendo ancora; a Marsala come in tutti i paesi dell’Italia meridionale, vi sono molti renitenti alla leva che si sono dati alla campagna. Il governo, spedisce reparti dell’esercito che accerchiando il paese con 2000 soldati, comandati da un Maggiore, intima al municipio di consegnare entro 10 ore gli sbandati. Il Sindaco si oppose, e furono arrestati proditoriamente 3000 campagnoli, i quali vennero gettati a forza, entro una vecchia miniera non areata, al buio e senza viveri. Malgrado l’invito al Prefetto della Provincia di intervenire immediatamente per salvare quelle vite, e di far cessare quelle violenze, il Maggiore aumentò di altre migliaia gli arrestati: agendo violentemente con minacce, persecuzioni e torture, nel nome del Regno di Italia.”

Un altro deputato siciliano D’Ondes Reggio, nella tornata del 5 dicembre del 1863, degli Atti Ufficiali n° 285, pagina 1089, descriveva le atrocità governative, commesse nel nome del Regno D’Italia sulle sventurate popolazioni della Sicilia descrivendo:
sottolineo uno stato di fatto, e devo esporre a voi, onorevoli signori, accadimenti miserevoli e rei, sui quali il Ministero non accetta l’inchiesta. I Siciliani non hanno mai avuto leva militare e ripugnano essere arruolati. Il Governo ha fatto per la Sicilia una legge eccezionale non scritta, eseguita con ferocia.
Dà lettura quindi, di un documento ufficiale, nel quale risulta esservi dato l’ordine, nella sera del 15 agosto 1863 dal Maggiore Frigerio, Comandante piemontese del comune di Licata, di doversi presentare in poche ore i renitenti di leva, in pena di privare dell’acqua tutta la popolazione a una città di 22000 abitanti. Ebbe istituito un coprifuoco senza averne apparente autorità, vietando ai cittadini di uscire di casa per far rifornimento di viveri, pena l’immediata fucilazione e di altre più severi misure. Fu un eccidio spaventevole, quando dopo giorni la gente chiedeva pane, e caddero a migliaia. Furono ritenuti i parenti contumaci della leva, sottoposti a tortura, fino a spruzzare il sangue dalle carni, uccidendo i bambini e i ragazzi a frustate e a baionettate infilzati. Furono violentate le donne e scannate donne gravide fucilandone i congiunti e tutti quelli che osavano protestare. Questa incredibile condotta militare, fu immediatamente imitata da altri battaglioni piemontesi ed applicata a: Trapani, Agrigento, Sciacca, Favara, Bagheria, Calatafimi, Marsala saccheggiando i raccolti, e bruciando gli impianti anche nei piccoli comuni limitrofi ai grossi centri poco fa citati.
Dà lettura in aula di un altro documento, di altro comandante piemontese, il quale emette ai suoi sottoposti un bando: arrestate tutti coloro dal cui volto, si sospetti di essere coscritti di leva, ed arrestate i loro genitori e i loro maestri d’arte, dove sono impiegati i sospettati e i loro contumaci.. Questo avvenne a Palermo, dove furono seviziati migliaia di malcapitati, su una città di 230000 abitanti, mentre il Governo nulla sa, nulla può? Altri abomini furono compiuti a Petralia Sottana, bruciando vive intere famiglie nelle loro case..
Nella tornata del 7 dicembre del 1863, il deputato Mordini osservava:
“gli atti del governo Sardo nella Sicilia, hanno l’impronta della barbarie, è lo stato desolante di tutta una isola resta tale, che i ministri hanno consigliato il Re di non visitarla. Mentre il deputato Miceli aggiunge: i fatti atroci, le violenze, gli arbitri, i massacri indiscriminati, sono l’abitudine sistema dell’attuale governo in Sicilia e anche nel continente“.

Nella tornata del 9 dicembre del 1863 il deputato Cordova, segnalava un fatto clamoroso:
“due ragguardevoli personalità siciliane venute da Torino per informare i ministri sui bisogni del paese, furono accolti con molta freddezza, dove enunciarono nell’aula, queste parole solenni“.
Una simile freddezza non fu mai trovata si dica ad onor del vero, nelle amministrazioni napoletane dei Borboni.
A tale accoglienza, quei due personaggi, partitisi da quei luoghi dicevano: dunque è necessaria un’altra rivoluzione! In questa discussione alla Camera di Torino, succedono scandali, minacce e proteste fra i deputati, così che il Presidente è costretto di coprirsi per due volte il capo, sciogliendo l’adunanza.
Nella tornata successiva del 10 dicembre del 1863 il deputato Crispi, enumerando le esorbitanze stesse dice: l’unico vantaggio, ottenuto dal governo di Torino in Sicilia, è quello di avere riempito le carceri di disgraziati. In quel frangete, il deputato Bixio, rispondendo alla platea contrastante, alludendo agli eccessi, della ribellione siciliana del 1860 affermava fra lo sgomento generale: aver veduto i cadaveri arrostiti e mangiati, e i cuori strappati dal petto dei vivi, confessa apertamente, la Sicilia sarebbe rimasta pacifica sotto i Borboni, se la rivoluzione non fosse stata ivi portata, dalle altre province d’Italia, ossia dal Piemonte.
In quei giorni di rivelazioni orrende, la stampa indipendente deplorava quelle discussioni e le considerava, come una vera sventura nazionale; un grave pericolo per l’unità italiana. Un giornale più di tutti, “Il diritto di Torino” concludeva un articolo scrivendo: aveva forse ragione Re Francesco II se definisce i Piemontesi come tiranni ed usurpatori del suo reame!

Vari deputati delle province meridionali, rinunciano a far parte della Camera di Torino.
Questa è una piccolissima sintesi, di un faldone di carte che il Governo italiano, chiese ufficiosamente a quello americano di distruggere, ma grazie a Dio, ciò non avvenne ed oggi, recuperandolo, lo si può far conoscere a tutti coloro che lo vorranno. Io ho esemplificato al massimo, i contenuti degli atti, dove leggevo eccidi e malefatte senza pari, dove le madri venivano scannate davanti ai figli e i padri fucilati seduta stante. Dove come dice un’altra fonte, un certo signore entrando nel comune di Torre Faro, di nome Giuseppe Garibaldi, ordinava a cuor leggero e senza processo, di fucilare gente disarmata perché non abbracciava la causa italiana.
fonte: Felix Dupanloup.

Alessandro Fumia
fonte: http://zancleweb.wordpress.com/2011/03/13/una-memoria-perduta-nella-vita-del-paese/

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martedì 15 marzo 2011

Raffaele Lombardo alla Real cittadella di Messina



Scoperta ieri la targa in onore dei soldati borbonici che difesero la Real Cittadella.

La bandiera della Real Cittadella sventola alla Real Cittadella ed il sopralluogo del Governatore nelle aree della Marina Militare.

Consegnata al Presidente della Regione, la medaglia commemorativa della resistenza borbonica alla Real Cittadella

Da una giornata orrenda può nascere una bella stagione?Lo scopriremo nei prossimi mesi. Soltanto fra qualche tempo, infatti, potremo sapere se la mattinata messinese di Raffaele lombardo nella Zona Falcata è servita a qualcosa o se gli impegni assunti ieri, durante il "tour" tra la Real Cittadella e il Forte San Salvatore, sono destinati a essere parole trascinate via dallo scirocco.

E' stato proprio il vento il dominatore della giornata.Ci voleva davvero un bel coraggio per addentrarsi, alle 9 di domenica, in quella landa desolata che oggi purtroppo, è la falce di Messina.
Il mare impetuoso a lambire i resti della fortezza secentesca (nel giorno del 150° anniversario della resa dei soldati borbonici, che resistettero per nove mesi all'assedio e capitolarono solo il 13 marzo 1861), le folate di vento a scompigliare i capelli e le pettinature e a far volare i capelli del "codazzo" di politici, amministratori, consiglieri e "amici dell'Autonomia" convenuti a seguito del governatore siciliano.

Un vento sempre più fastidioso, che ha scoraggiato Lombardo dall'ampliare il raggio della sua visita, che avrebbe dovuto toccare, oltre alla Real Cittadella, anche l'inceneritore di San Raineri e il litorale di Maregrosso.
Ma il presidente della Regione, alla fine, ha ritenuto più ragionevole fermarsi all'interno del Forte San Salvatore, dialogando con il Sindaco Buzzanca, con il soprintendende ai Beni culturali Salvatore Scuto, con il commissario dell'Ente Porto Rosario Madaudo e il commissario dell'Ente Fiera Fabio D'Amore, con il presidente del consiglio comunale Pippo Previti, con i deputati presenti (la sua "guardia del corpo" Peppe Picciolo, Filippo Panarello, l'ex parlamentare dell'Ars Fortunato Romano), con l'assessore regionale, il messinese Mario Centorrino.

Poi, un caffè all'Ammiragliato, nella sede della Marina Militare, e di corsa verso gli altri appuntamenti della giornata, a Rodi Milici e Spadafora.
Ma proprio per evitare che quella di ieri sia stata solo una "sciroccata", Lombardo ha inteso dare subito un taglio operativo:
"Oggi ho potuto toccare con mano l'importanza di quest'area, che ha una storia gloriosa che deve essere valorizzata e che può rappresentare un volano di sviluppo per l'intera città. E' per questo che bisogna sedersi tutti attorno a un tavolo e lo faremo prestissimo, non fra un mese o un anno".
Il tempo di consultare l'agenda, poi l'annuncio: "Venerdì prossimo alle 1 ci vedremo a Palermo", un invito rivolto ovviamente al Comune e alla Provincia, ma anche all'Autorità Portuale, all'Ente porto, alla Soprintendenza, alle FS e alla stessa Marina Militare.

L'obiettivo di Lombardo è creare subito la famosa "cabina di regia" che era alla base di quell'accordo quadro di programma sulla Zona Falcata approvato nel 2007 e rimasto nei cassetti. "Agiremo in unità d'intenti, supereremo i conflitti di competenze, troveremo soluzioni che tengano conto dell'interesse dei messinesi e dei siciliani, cercheremo di coinvolgere il governo nazionale ma in ogni caso faremo tutto ciò che è nei nostri poteri, perchè non vogliamo più che il palleggio delle responsabilità diventi un alibi per lasciare le cose come stanno, mantenendo questa porzione di territorio nell'abbandono e nel degrado".

Parole di buon senso a cui seguono quelle del sindaco Buzzanca:"non ho mai anteposto i fatti politici a quelli istituzionali.
Le divergenze di vedute con Lombardo non significano che io e lui siamo in guerra permanente e che alla fine debba rimetterci la nostra città.
Mi fa piacere che il presidente della Regione abbia compreso l'importanza che la Zona Falcata assume per i progetti di rilancio di Messina e sono stato io a chiedergli di attivare un tavolo per sciogliere una volta per tutte i nodi che rimangono irrisolti, primo fra tutti quello della presenza dell'Ente Porto e della "schizofrenia" che sembra esserci tra i vari Dipartimenti della Regione che, da un lato, vincola per fini culturali le aree della Real Cittadella e, dall'altro, prevede insediamenti industriali nell'ambito del Punto Franco".

Non sarà mai l'armonia ritrovata( che, in fondo, tra i due non c'è mai stata), ma Lombardo e Buzzancam quanto meno, hanno riaperto le porte al dialogo.
In realtà, c'è chi resta alquanto scettico sulle reali possibilità che le dichiarazioni d'intenti si trasformino in atti concreti: "Li aspettiamo - commenta il segretario generale della Cisl Tonino Genovese - e apprezziamo la visita di Lombardo.

Non mi semvra di aaver percepito negli occhi degli attori presenti la volontà d'invertire la rotta.Speriamo di sbagliarci.E' bene che ognuno faccia la sua parte e che nessuno si lamenti più del buio, ma accenda la candela che ci guidi verso un futuro migliore.
Ma a quanto pare - aggiunge - neanche il vento riesce a spazzare via un Ente Porto inutile e dannoso.Ci portano via tutto in questa città ma ci lasciano proprio l'Ente Porto, paradossi di una politica arrogante"
La posta in palio riguarda non solo la Zona falcata.In ballo c'è anche il futuro della Fiera e ieri il sindaco e il commissario Fabio d'Amore hanno convenuto sulla necessità di fissare un incontro in settimana per discutere delle sorti della Campionaria e del quartiere fieristico.

Lucio d'Amico
Gazzetta del Sud


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Real Cittadella: breve relazione sui fatti bellici del febbraio – marzo 1861



A seguito dei fatti del luglio 1860, Messina era ormai da mesi in mano agli eserciti garibaldino e piemontese, solo le fortificazioni del porto falcato erano presidiate dall’esercito borbonico (4500 uomini) presso i presidi di: don Blasco, lunetta Carolina, Cittadella, batteria della Lanterna e SS. Salvatore (tutte opere ancora ben visibili), il cui punto di forza era la Cittadella comandata dal brig. De Martino, mentre il castello del SS. Salvatore era al comando del Brig. Anguissola (fratello del comandante della pirofregata Veloce, il quale nel luglio 1860 tradì consegnando la nave al nemico che la ribattezzò Tuckery) e le sue artiglierie dirette dal ten. col. Recco. Le uniche Piazze del regno duosiciliano che ancora resistevano erano quelle di Messina e Civitella, mentre Gaeta era caduta a metà febbraio.

Il giorno 25 febbraio 1861 l’esercito piemontese giunse a Messina (in cui dal settembre 1860 vi era la brigata Pistoia del magg. gen. Chiabrera, il quale aveva già intimato invano la resa della Cittadella) inizialmente col solo quartier generale, cominciando la ricognizione del territorio e lo studio delle difese nemiche. Ne risultò che le fortificazioni borboniche erano ben strutturate e quindi un attacco regolare per via di terra avrebbe creato gravi problemi, tuttavia dato che le batterie borboniche erano tutte in barbetta, senza alcuna protezione e dominate dalle alture circostanti, si optò per un attacco con le artiglierie, la cui efficacia avrebbe avuto ragione sul nemico. Presa tale decisione, il 26 febbraio mediante tre navi provenenti da Gaeta, fu sbarcato a sud della città presso Contesse un corpo di spedizione composto da: 4 battaglioni di fanteria, 3 di bersaglieri, 7 compagnie di artiglieria e 6 compagnie di genieri, che iniziarono i lavori di trinceramento e di sistemazione delle batterie e del materiale occorrente, insieme a tutte le strutture utili (strade, terrapieni, polveriere, depositi) nonché l’organizzazione del piano di fuoco. Ciò provocò la reazione del maresc. Fergola il quale lamentava il mancato rispetto di uno degli articoli della convenzione stipulata dal suo predecessore Clary e il gen. Medici nel luglio 1860. Seguì uno scambio di lettere tra il Cialdini e il Fergola, i quali fermi sulle rispettive posizioni non raggiunsero un accordo, provocando di fatto l’abrogazione della suddetta convenzione e la dichiarazione dello stato di guerra, con l’inizio delle ostilità il primo marzo. Nel frattempo i piemontesi sistemarono le loro artiglierie a varie altitudini sul versante sud-sud ovest della città posizionando 59 vari pezzi (il gen. Menabrea riferisce 55) di artiglieria suddivisi in 6 batterie al comando di due maggiori. Il comando generale spettava al generale di armata Cialdini (IV C.A.), quello delle artiglierie fu affidato al luogoten. gen. Valfrè, quello del Genio al luogoten. col. Belli, quello del parco di assedio al magg. Mattei, mentre al magg. gen. Avenati spettava il comando della fanteria.

Nello specifico il parco di assedio era composto da: 23 cannoni in ferro da 40 libbre rigati e 6 lisci, 10 cannoni da 16 in bronzo da campagna rigati e 6 da muro rigati, 12 mortai da 27 cm in ferro e 4 da 15 cm in bronzo, ciascun pezzo disponeva di 500 colpi.
Nel frattempo i borbonici si organizzavano per la difesa, diretta dal giovane ten. colonnello Patrizio Guillamat, pluridecorato, veterano e studioso nel campo delle fortificazioni e artiglierie, giunto sul posto nel mese di febbraio con l’incarico di direttore delle artiglierie e capo di SM della Cittadella (che aveva i depositi pieni di polveri e munizioni e accoglieva i familiari dei militi).
Egli dal giorno 4 marzo si occupò della sistemazione e dell’organizzazione delle batterie della Piazza, ma la mancanza di pezzi rigati (presenti a Gaeta) evidenziava l’impossibilità di una difesa adeguata contro le artiglierie piemontesi, invece in buona parte rigate (mod. Cavalli con canne a due righe e proietti cilindrico ogivali), il cui debutto su larga scala era avvenuto durante l’assedio di Gaeta.
Per cercare di risolvere il problema il Guillamat armò presso le opere di Santo Stefano (fronte sud della Cittadella) tre batterie per un totale di 42 pezzi lisci di cui: 16 cannoni-obici da 80 libbre (Paixhans), 13 da 36 libbre e 13 da 24. Non avendo tali artiglierie la capacità di raggiungere le principali batterie piemontesi, poste fuori tiro utile, in buona parte sulle colline a quote più elevate rispetto agli spalti della Cittadella, il Guillamat allo scopo di allungare il tiro, decise la sistemazione fissa dei pezzi, ovvero senza affusti, infossati e bloccati al suolo con massima elevazione di 42 gradi. Con tali modifiche erano tuttavia necessarie granate dotate di spolette programmate a circa 45 secondi, che però mancavano, ma l’ufficiale fece adattare le spolette di altre bombe programmate per 32 secondi e allungò il tempo di attivazione a 45 secondi intingendole in casse d’armi piene di terra fresca.

Questa idea consenti di estendere l’attivazione delle spolette al momento necessario, massimizzando gli effetti dei tiri sulle posizioni nemiche. Infatti già il 5 marzo le tre batterie borboniche modificate, cominciarono contemporaneamente a far fuoco contro gli appostamenti nemici e le navi in zona Contesse, colpendo giorno 11 un vapore piemontese. Il fuoco continuò nei giorni successivi e l’8 marzo, dopo un ultima vana lettera del Fergola al Cialdini che intimava la sospensione dei lavori, tutte le batterie borboniche della zona falcata accompagnate dal suono dell’inno nazionale aprirono il fuoco, tuttavia sospeso in alcuni presidi per via dell’eccessiva distanza degli obiettivi e per evitare che le granate cadessero sulla città. Tra il 10 e 12 marzo tre batterie piemontesi furono danneggiate (ma i lavori di sistemazione non si fermarono) con morti e feriti, tantochè venne mandato un ufficiale piemontese a complimentarsi per l’efficacia del tiro giudicato ammirevole, nel frattempo fu stabilito il fuoco continuativo diurno e notturno (4 colpi ogni 15 minuti), anche sui veicoli che trasportavano i materiali utili alle batterie nemiche e la sede del comando, nonostante la stanchezza dei serventi e i vari pezzi che cominciavano a difettare e rompersi per via dell’usura o l’atipica sistemazione senza affusti.

A mezzogiorno del giorno 12 marzo, sfruttando un periodo di relativa pausa nemica, i piemontesi che sino a quel momento non avevano reagito, tolsero i mascheramenti e iniziarono un preciso fuoco di neutralizzazione e interdizione con le batterie superiori, alle quali si aggiunsero quelle a quote più basse (costruite molto vicine alla posizioni nemiche e coperte alla vista dalla vecchia cinta daziaria, tanto che una batteria si era dotata di osservatorio). Nel contempo la squadra navale sarda tirava sulla Cittadella nonostante le condizioni meteo marine sfavorevoli.
Le batterie piemontesi fecero piombare sulle posizioni borboniche ben 4239 granate (da un rapido calcolo risulta che le granate nemiche giungevano ogni 5 sec), riducendone al silenzio le relative artiglierie. Il tiro diretto, incrociato e d’infilata piemontese durò ininterrottamente per 5 ore fu molto proficuo per via della posizione e quota delle batterie e della ridotta distanza degli obiettivi (minima di 400 metri e massima di 2000 metri circa) in relazione alla potenza e precisione delle artiglierie, che permetteva anche il fuoco al rovescio, ovvero sulle parti retrostanti gli obiettivi nemici. Le granate piemontesi inizialmente si concentrarono sull’opera meridionale più avanzata rispetto alla Cittadella ovvero il bastione Don Blasco dotato di 13 cannoni (già luogo di combattimenti a seguito di una sortita borbonica), seriamente danneggiato, quindi abbandonato sotto i colpi nemici e fatto saltare in aria a cannonate dagli stessi borbonici.

L’incendio che ne conseguì anche per via del bombardamento nemico che nel frattempo si era spostato sugli altri punti della Cittadella, si estese a causa del vento ai padiglioni limitrofi ad una delle polveriere, piena zeppa del munizionamento portato da tutti gli ex presidi siciliani. Il fuoco fece saltare in aria alcuni depositi munizioni minacciando praticamente tutta la fortificazione con grave rischio di esplosione, distruzione totale e sicura morte per gli occupanti, compresi i mille civili presenti. Nell’impossibilità di domare le fiamme sotto l’incessante tiro delle batterie piemontesi, alle ore 17 il maresc. Fergola chiese una tregua di 24 ore, accettata in parte. Dunque lo SM borbonico vista la grave situazione e l’impossibilità di resistere oltre, decise la resa a discrezione per il giorno 13 stabilita dal Cialdini e da comunicargli inderogabilmente entro le 21 dello stesso giorno, onde evitare la ripresa del tiro delle batterie piemontesi. Fu così diramato l’ultimo comunicato ufficiale borbonico e concesse le decorazioni al valor militare. Il giorno 13 marzo del 1861, spenti quasi tutti gli incendi, i soldati borbonici che lamentarono 47 morti, si arresero ufficialmente secondo le condizioni dettate dal gen. Cialdini, il quale non concesse l’onore delle armi, anzi fece arrestare e mettere sotto processo tutti gli ufficiali di SM, poi scagionati e rilasciati.
I tecnici dell’esercito piemontese crearono per i vari assedi delle Piazze nemiche, un’apposita commissione di studio circa gli effetti dei cannoni rigati e relativi proietti cilindrico ogivali sugli obiettivi nemici.
La Piazza di Messina fu dunque l’ultimo presidio di Sicilia e il penultimo del regno duosiciliano. Dopo la fine delle ostilità, nella Piazza fu conteggiato un totale di 455 artiglierie varie di cui 155 di bronzo e 300 di ferro, insieme a 267.000 chili di polvere sciolta e migliaia di pezzi tra affusti, attrezzi, fucili, sciabole, cartucce, munizioni e quant’altro.

Nello stesso anno, dopo la proclamazione ufficiale del regno d’Italia, i parlamentari La Farina e Plutino chiesero la demolizione della Cittadella, protagonista di ben 4 assedi in un secolo e mezzo.
Stolta richiesta fortunatamente mai posta in essere, anche se, dismessa la funzione militare dopo la fine del secondo conflitto mondiale, l’opera così come l’area circostante, fu via via devastata dal degrado e da miopi scelte politiche ed economico industriali, rilevatesi nel tempo a dir poco errate e fallimentari, i cui vergognosi risultati gravano sule spalle delle nuove generazioni.
A ciò si aggiunga la ancora diffusa mentalità “lafariniana”, mista ad una disarmante ignoranza storica, che insieme al persistente degrado e abbandono, contribuiscono tutt’oggi a privare ulteriormente i cittadini messinesi di tale meravigliosa porzione della città.

Armando Donato Mozer
Vicepresidente regionale e responsabile sez. Messina
Comitato Storico Siciliano

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Messina 150


L'intervento del delegato CDS Messina Armando Donato Mozer alla conferenza

Messina rappresenta, o dovrebbe rappresentare, nell’immaginario collettivo di ogni buon meridionale (intendendo per meridionali tutte le popolazioni dal Tronto a Lampedusa) uno dei momenti di maggior fierezza del nostro passato assieme, per volerci solo limitare al biennio 1860 – 1861, a Gaeta e Civitella. Tre momenti indimenticabili per quanti sono consapevoli della grandezza passata e dei torti subiti dai nostri padri che in quelle tre fortezze offrirono alla Patria la propria vita. Ovviamente si trattava della vera Patria (la terra dei propri padri) e non della nazione modernamente (o giacobinamente) intesa e incarnata da quel violento tentativo di unificazione che, dopo 150 anni, deve essere commemorato per decreto legge (sic!). Cosa dire di quegli uomini che offrirono la loro vita in nome di un mondo che, sconfitto già in Francia nel 1789, e nel 1830, e in Spagna nel 1835, stava cedendo il passo al nuovo ordine liberal – rivoluzionario anche nella penisola italiana.

Morti contro il risorgimento, questo andrebbe detto ai tanti soloni che oggi amano dire che festeggiare è obbligatorio per i tanti che sono morti per fare l’unità! Non ci piace il conteggio dei morti ma troppi sono morti per essersi opposti all’espansione piemontese, prima, durante e dopo quel maledetto 1861. Tra questi i soldati della fedelissima Real Cittadella di Messina occupano un ruolo di primo piano. Oltre cinquemila quelli che non si arresero e, a nome di tutti i siciliani rimasti fedeli alla monarchia borbonica (dopo i martiri di Bixio a Bronte anche gli inermi rivoltosi di Palermo del 1866 che la storiografia ignora) scelsero di resistere assediati da terra e da mare nella fortezza. Spinti alla resistenza dalle notizie che giungevano dal resto del regno, dove già soffiava il vento della rivolta popolare mentre Gaeta e Civitella resistevano e i due giovani Sovrani Francesco II e Maria Sofia sfidavano le bombe piemontesi, furono guidati da un valoroso ufficiale, il Generale di Brigata Gennaro Fergola intenzionato a rispettare fino alla morte il giuramento di fedeltà al sovrano. La fortezza di Messina resisté indomita e indomabile per sette mesi e mezzo. Questa straordinaria storia di vero patriottismo ed eroica abnegazione al proprio dovere ebbe inizio quando, il 27 luglio 1860 il pirata Garibaldi entrò a Messina con i suoi 2400 compagni di ventura. Francesco II, al di là di quello che disegnarono le critiche dei risorgimentalisti, ci aveva visto giusto.

Pochi avrebbero seguito il nizzardo che ancora non avrebbe potuto approfittare del sostegno diretto delle brigate di bersaglieri e militari piemontesi (cosa che invece avverrà dopo la rotta borbonica in Calabria) e l’ordine del Re fu quello di concentrare tutte le truppe disponibili attorno a Messina da dove sarebbe ripartita la riconquista dell’isola. Purtroppo non tutti gli ufficiali erano come Fergola e il piano non aveva previsto il tradimento. Il ministro della guerra Giuseppe Salvatore Pianell, ordinò a tutti i 15.000 uomini concentrati nella città di abbandonare l’isola per difendere il continente e, nonostante le proteste di molti ufficiali, non ci fu nulla da fare. Il comandante in campo delle truppe, generale Clary, fu costretto a ordinare la partenza ma diede disposizione a Fergola di resistere con 4000 uomini nella fortezza. A quelle truppe si aggiunsero poi gruppi di soldati che rifiutarono l’imbarco, guardie cittadine in fuga dalla città e numerosi volontari che portarono il numero degli effettivi agli ordini di Fergola a oltre 5000 borbonici. Abbastanza per tenere impegnati i garibaldini e per reagire all’occupazione, inefficaci per potersi muovere in mancanza di rinforzi. Garibaldi si imbarcò per la Calabria lasciando i suoi uomini ad assediare la fortezza poco meno di un mese dopo il suo ingresso in città.

Fino al mese di dicembre l’assedio fu, relativamente, “tranquillo” ma agli inizi di dicembre giunsero in Sicilia i primi reparti di piemontesi e parte della nuova flotta italiana (costituita in gran parte dalle navi borboniche che erano stati consegnati da ufficiali felloni e traditori all’ammiraglio piemontese Carlo Pellion di Persano, ovviamente dietro pagamento di grosse somme di denaro) e la musica cambiò. Anche dal mare cominciarono ad arrivare i colpi di cannone e l’assedio si fece maggiormente pericoloso. Alle palle di cannone si aggiunse la fame e Fergola chiese al Re il permesso di far uscire dalla fortezza i civili e i feriti per alleggerire il carico dei resistenti. La struttura della fortezza, a cinque punte fortificate, contribuì alla resistenza prolungata visto che ogni angolo e ogni lato del pentagono difensivo poté essere difeso con i cannoni napoletani. Ogni giorno il valore degli assediati fu dimostrato sul campo. Mai la resa divenne una opzione, nemmeno quando da Gaeta giunse la notizia della capitolazione della fortezza e della partenza del Re, che aveva abbandonato la città per risparmiare ulteriori lutti alla popolazione civile e all’armata decimata dalle bombe e dalla malattia. Il 12 febbraio 1861 Francesco II e Maria Sofia lasciarono per sempre il proprio regno in direzione di Terracina, a pochi chilometri dal confine, dove avrebbero poi raggiunto Roma per il decennale esilio romano. La capitolazione di Gaeta era attesa da ore anche in Sicilia.

Il Tenente Colonnello Guillamat aveva infatti lasciato la città dopo che Francesco II aveva comunicato la sua decisione e, con una piccola nave riuscì a raggiungere Messina per continuare la guerra. Fergola tenne un consiglio di guerra. Caduta Gaeta valeva la pena resistere? Per il soldato napoletano l’onore è tutto e nessuno volle abbandonare il campo. La sfida più grande cominciò nella seconda metà di febbraio quando giunse a dirigere l’assedio il generale Enrico Cialdini, il boia di Gaeta, il futuro macellaio di Pontelandolfo e Casalduni, l’uomo che oggi riesce a far apparire Gheddafi un "boy scout" alle prime armi. La galanteria militare non sapeva neanche cosa fosse, Cialdini, il quale portò con se i famosi cannoni rigati che cominciarono a sparare a tutto spiano, senza soste. Di fronte alla ferocia animale di Cialdini, Fergola non poté far altro che rispondere con il suo onore e la sua dignità. Scelse di continuare a combattere e con i suoi valorosi soldati tentò una disperata sortita nel tentativo di spezzare l’assedio.

Il tentativo finì nel sangue ma dimostrò ancora una volta la volontà combattiva degli assediati e il loro valore. L’undici febbraio, con ormai pochi proiettili e senza viveri, si aprirono le trattative. Nemmeno gli onori militari furono tributati ai 5000 di Messina. Ammainata la bandiera borbonica dal forte, i napoletani uscirono dal portone principale per andare verso il loro destino. Furono fatti sfilare disarmati sotto gli occhi dei “vincitori” mentre Cialdini, confermando la sua cattiva fama, ordinò (l’ingiustificato) arresto per gli ufficiali che avevano guidato la resistenza. Dispose la partenza immediata di tutta la truppa borbonica verso Genova dove sarebbero stati smistati nei tanti forti – prigione del Grande Piemonte, i famigerati lager dei Savoia. Furono salvati dall’azione diplomatica di Francesco II che, impressionato per la prolungata resistenza, ottenne l’intervento dell’imperatore di Francia, Napoleone III il quale riuscì a garantire, su navi francesi, il trasporto degli eroi di Messina Fergola, Cavalieri, Gaeta, Cobianchi, Granata, de Nunzio, Recco, Di Gennaro, De Martino, Lauria, Brath, Lamonica, Anguissola, Falduti, Marini, Colombo, Pagano, Guillamat, tutti scampati alla vendetta piemontese assieme alla maggior parte dei soldati che rientrarono come privati cittadini alle loro case. Molti di questi divennero “briganti” e proseguirono la loro battaglia per il Re Borbone. La bandiera bianca veniva ammainata dal forte. Cominciava l’esilio dei gigli di Napoli. Cominciava la via crucis delle Due Sicilie.

Roberto Della Rocca

fonte: http://istitutoduesicilie.blogspot.com/2011/03/messina-150-in-memoria-degli-eroi-delle.html

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venerdì 11 marzo 2011

150° Real Cittadella di Messina - La Mostra (video)



Video della mostra a Palazzo Zanca - 11 marzo 2011


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Messina 1858 - Un gigante tessile da 4000 operai



Nel 1858 si segnalava un altro grande stabilimento tessile, che produceva il triplo dei prodotti tessili dello stabilimento industriale Ainis, avverte la fonte, che viene più volte segnalato da molti osservatori.
Da quei riscontri, si assommavano numerosi dati economici che permettevano di calcolare il valore del prodotto terminato e la forza lavoro, prestata per realizzare il prodotto finito.

In quello stabilimento, si lavoravano 340000 chili di cotone grezzo, producendo circa 80000 pezze annue, dalla lunghezza cadauno di 24 metri. In oltre, si tesseva un tessuto, detto del traliccio, una specie di tricò, ed altri vari tessuti per i quali, si impiegarono 32000 chili di cotone annui. Era servito da 15 macchinari a vapore e ci lavoravano circa 4000 operai.

Alessandro Fumia
fonte: http://zancleweb.files.wordpress.com/2011/02/tessile.jpg?w=300&h=282

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giovedì 10 marzo 2011

150° della resistenza alla Real Cittadella di Messina (Gazzetta del Sud)



di Antonio Sarica
Da Milazzo liberata, le camicie rosse avanzano verso Messina.Garibaldi vi entra il 27 luglio 1860, e il giorno dopo, Tommaso De Clary, comandante superiore delle truppe borboniche, e Giacomo Medici, maggiore generale garibaldino, stipulano una convenzione, "nell'intendimento di evitare lo spargimento di sangue".

L'accordo prevede che, dalle fortezze messinesi, rimangano ai soldati regi soltanto la Cittadella e le tre ad essa contigue, ossia Lanterna, Don Blasco e San Salvatore.Oltre sa questa piazzaforte, Francesco II di Borbone mantiene quella di Gaeta e di Civitella del Tronto.

Dapprima al comando di De Clary e poi, dal 9 agosto, del maresciallo di campo Gennaro Fergola, i borbonici tengono saldamente la secentesca fortezza sullo Stretto per nove mesi. Quando cade Gaeta e Francesco II va in esilio, segnando la fine del Regno delle Due Sicilie, la Cittadella non si arrende: se il Trono è perduto, va tuttavia difeso l'onore militare.

Dapprima al comando di De Clary e poi, dal 9 agosto, del maresciallo di campo Gennaro Fergola, i borbonici tengono saldamente la secentesca fortezza sullo Stretto per nove mesi. Quando cade Gaeta e Francesco II va in esilio, segnando la fine del Regno delle Due Sicilie, la Cittadella non si arrende: se il Trono è perduto, va tuttavia difeso l'onore militare.

Ma l'orgoglio di Fergola e dei suoi ha i giorni contati; fatalmente lo spegne il decisivo assedio del generale piemontese Enrico Cialdini.
La guarnigione borbonica, ormai allo stremo, abbandona la Cittadella il 13 marzo 1861.

Tale significativo momento storico sarà debitamente ricordato a Messina da domani a domenica 13 marzo, nell'amnito delle celebrazioni per il 150° anniversario della proclamazione del Regno d'Italia.
L'iniziativa è di alcuni autorevoli sodalizi culturali alquanto impegnati, tra l'altro, nella "rilettura" dei fatti risorgimentali.

Domani alle 11, nell'atrio del Salone delle bandiere di Palazzo Zanca, verrà presentata una medaglia commemorativa realizzata dal maestro orafo Alfredo Correnti. E' in argento, con al diritto la pianta pentagonale della Cittadella e al rovescio un motto elogiativo.Seguirà nella stessa sede, la descrizione di singolari immagini rievocative, per lo più incisioni e foto.

Sabato alle 11, una visita guidata nell'istituto industriale Verona-Trento, per ammirare un plastico della Real Cittadella in legno zecchinato, opera degli studenti del medesimo istituto; a alle 17, nel Salone delle bandiere del Municipio, un convegno sul tema dell'"eroica difesa" della roccaforte borbonica nella falce del porto.

Si discuterà anche del libro di Nino Aquila e Tommaso Romano "La Real Cittadella di Messina. 13 marzo 1861, l'ultima bandiera borbonica in Sicilia". Edito di recente dalla Fondazione Thule, il libro consiste di due saggi su "quel travagliato e determinante periodo storico" e di parti salienti del diario di Luigi Gaeta "Nove mesi a Messina e la sua Cittadella" (Napoli, 1862).

E' tempo - scrive Franz riccobono nella introduzione - che "si faccia finalmente e senza reticenze luce sulle modalità politiche e militari che hanno portato alla fine del Regno delle Due Sicilie e alla nascita del nuovo stato italiano". E a proposito della Cittadella aggiunge: si tratta di un monumento "emblematico" del quale rimane gran parte; bisogna restaurarlo senza più indugiare e "restituirlo alla fruizione, alla memoria della nostra terra, alla storia dell'intera Italia".

Aprirà i lavori del convegno l'assessore comunale alla Famiglia Dario Caroniti.Questi i relatori: Franz Riccobono (Associazione Amici del Museo), Antonio di Janni (delegato della Real casa Borbone-Due Sicilie), Giovanni Bonanno (Ordine Costantiniano di San Giorgio), Salvatore Serio (Associazione culturale neoborbonica), Armando Donato (Comitato Storico Siciliano), Umberto Bringheli (Alleanza Cattolica), Vincenzo Gulì (Associazione culturale neoborbonica), Nino Aquila (Museo Risorgimento di Palermo), Tommaso Romano (Fondazione Thule Cultura), Alessandro Fumia (Amici del Museo), Piero Adamo (Zona d'arte Messina).

Domenica alle ore 10.30, nella Chiesa dei Catalani, S.Messa in suffragio dei caduti, presieduta dal cappellano dell'Ordine Costantiniano di San Giorgio, don Vincenzo Castiglione.
Quindi alle 11.30, scoprimento di una lapide celebrativa e commemorazione di quei fatti d'arme, presso il bastione Santo Stefano della Cittadella.

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lunedì 7 marzo 2011

150° ANNIVERSARIO DELL’EROICA DIFESA DELLA REAL CITTADELLA DI MESSINA‏



Da venerdì 11 a domenica 13 marzo 2011 a Messina verrà ricordato, con un ricco programma di iniziative, il 150° anniversario dell’eroica difesa della Real Cittadella di Messina da parte dei fedelissimi soldati duosiciliani, comandati dal Generale Fergola, assediati dalle truppe piemontesi del Generale Cialdini.

Era il 13 Marzo 1861, a quattro giorni dalla proclamazione a Torino del Regno d’Italia, quando dalla Cittadella veniva ammainata la candida bandiera duosiciliana. La fortezza messinese rappresentò, insieme con quelle di Gaeta e di Civitella del Tronto, l’estrema resistenza del millenario Regno delle Due Sicilie, dove i nostri soldati pur sapendo della inutilità di ogni sforzo cercarono di difendere la Patria esprimendo la propria fedeltà al Re Francesco II di Borbone.

Una gloriosa pagina del nostro passato volutamente cancellata dalla storiografia ufficiale come la stessa Real Cittadella, testimone inesorabile dei fatti, che ancora oggi versa nel totale abbandono.

Per oltre un secolo è stato ripetuto lo stesso banalissimo ritornello infarcito di vane e vaghe parole quali “libertà” e “tirannide straniera”, “eroismo” e “capacità militari” contro inadeguatezza e fellonia, in un clichè traboccante di retorica risorgimentale secondo i cui schemi fissi i buoni e i bravi erano tutti da una parte ed i brutti e i cattivi dall’altra. Le cose andarono diversamente, facili vittorie da una parte, vero e consapevole eroismo dall’altra.

Ruoli ribaltati, chi avrebbe ragionevolmente dovuto vincere la battaglia ha ufficialmente e sostanzialmente perso, chi non avrebbe potuto neanche sperare nella vittoria in pratica vinse. Le fantomatiche qualità di stratega riferita a Garibaldi avevano fondamento solo ed esclusivamente nella concussione e nel tradimento di buona parte di quanti comandavano le agguerrite truppe borboniche. Non un solo scontro, da Calatafimi a Milazzo vide prevalere, se non nel numero sproporzionato di vittime, i garibaldini. Se i generali tradirono altrettanto non avvenne tra le truppe fedeli al Re Francesco II come dimostrano i numerosi casi di insubordinazione dei reparti ai loro comandanti felloni e venduti al nemico.

Ben vengano le celebrazioni del 150° dell’Unità nazionale ma a ciascuno sia riconosciuta pari dignità e non si perduri con la sopraffazione, con la distorsione di una realtà storica troppo a lungo praticata. Il tempo scopre la verità, ed anche la verità negata al popolo meridionale e siciliano nella fattispecie ha diritto di cittadinanza in una nuova Italia colta e consapevole delle proprie origini e della comune millenaria cultura. Da sempre è stato facile e preferibile schierarsi dalla parte dei vincitori, da sempre più difficile e pericoloso continuare a difendere le ragioni dei vinti.

Questa cerimonia si svolge dal lontano 1998 ed è organizzata dall’Associazione Amici del Museo, dall’Associazione “Generale Fergola”, dalla Delegazione di Sicilia del Sacro Militare Ordine Costantiniano di San Giorgio, dalle Delegazioni di Messina dell’Associazione Culturale Neoborbonica e del Comitato Storico Siciliano, da Alleanza Cattolica, dalla Fondazione Thule Cultura di Palermo, dal Network ZDA - Zona d’Arte ad alto rischio di contaminazione - Messina e dall’Associazione Due Sicilie “Nicola Zitara” di Gioiosa Jonica.

L’Addetto Stampa della Manifestazione
Dott. Marco Grassi

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Resoconto dei Venerdi Culturali a Ragusa.



Buona la partecipazione del pubblico per il primo appuntamento dei Venrdì Culturali organizzati dalla Pro Loco di Ragusa presso l’Auditorium S.Vincenzo Ferreri a Ibla. Nonostante infatti la pessima serata con pioggia e freddo un buon numero di appassionati di storia hanno assistito con piacere alle relazioni del dott. Armando Donato, vicepresidente del Comitato Storico Siciliano e del prof Corrado Calvo coordinati dal giornalista Gianni Papa.

Il tema come è stato più volte detto era quello dell’Unità d’Italia nell’ambito delle manifestazioni per il 150° anniversario con uno sguardo particolare al nostro territorio.Armando Donato ha raccontato dei Borboni, del loro regno e dell’economia che in Sicilia, tra il 1800 ed il 1860 aveva raggiunto un buon livello.

Inspiegabile invece come un esercito preparatissimo e numeroso (circa 180.000 uomini) come quello del Regno delle due Sicilie si sia piegato ad un manipolo di un migliaio di persone mal armate e disorganizzate guidate da Garibaldi. La storia deve ancora chiarire molti dei suoi lati oscuri ma prima di tutto ha detto Armando Donato, dobbiamo riprenderci la nostra dignità di siciliani e convincerci di non essere stati soltanto dei colonizzati dal Piemonte.

Per Corrado Calvo l’argomento da approfondire è stata proprio l’economia siciliana durante il regno borbonico. Anche per lo storico siracusano è il momento di riscrivere alcune pagine della nostra storia. Il Val di Noto con la sua elite aristocratica e clericale aveva enormi capacità economiche dimostrate dalla crescita che in quegli anni ebbero città come Modica, Noto Rosolini, Ragusa. Insomma non terra di emigrazione come invece erano le regioni del nord ma solide realtà contadine in grado di affrontare tante dominazioni e tasse e continuare a crescere.

Il prossimo seminario vedrà la partecipazione di Mimì Arezzo e Saretto Sortino. Si parlerà di Ragusa e Donnafugata cercando di far rivivere le abitudini del tempo anche dal punto di vista della gastronomia. Appuntamento a venerdì 11 marzo alle 19,30.

fonte: http://www.reteiblea.it/?p=19663

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