sabato 2 marzo 2013

152° Anniversario dell'eroica difesa della Real Cittadella di Messina

MESSINA - L'assedio alla Real Cittadella, una pagina gloriosa del nostro passato volutamente cancellata dalla storiografia ufficiale, verrà ricordata nelle giornate del'9 e 10 marzo presso il capoluogo Peloritano.
La rete delle Associazioni delle Due Sicilie sarà per la prima volta tra gli sponsor dell'evento borbonico più importante della Sicilia, che si tiene ormai da diversi lustri.


Il programma prevede nella giornata del 9 marzo l'omaggio floreale alla statua di Ferdinando II ed una conferenza che avrà come titolo "La Real Cittadella di Messina: passato e prospettive di recupero e valorizzazione"

Il 10 marzo saranno ricordati i caduti con una Messa presso la Chiesa di S.Caterina V. e M.  La giornata si concluderà con la visita alla Real Cittadella dove, presso il Bastione S.Stefano,  si svolgerà  la commemorazione e la deposizione delle corone di fiori.
Sarà presente per l'occasione l'Istituto di ricerca storica delle Due Sicilie, nelle persone del presidente Cav. Giovanni Salemi, il giornalista Roberto della Rocca, Giancarlo Rinaldi e lo scrittore Fernando Riccardi.

Davide Cristaldi

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Dal Separatismo Siciliano al Parlamento Italiano: la politica come opportunismo per arrivare al potere

Francesco Crispi al parlamento italiano
CATANIA - Le rivolte avvenute in Sicilia negli anni immediatamente successivi all’unità d’Italia ebbero una matrice borbonico-clericale e repubblicana, ma non separatista, avendo quest’ultima parte trovato appagamento politico nella compiuta Unità, come si legge nelle varie ricostruzioni dell’epoca.

Tra i fautori della rivolta di Castellammare del 1862, cito come esempio Francesco Mistretta Domina, già direttore dei dipartimenti di Grazia e Giustizia, Luogotenenza di Sicilia, morto ad Alcamo nel dicembre del 1862.

Ancora nella rivolta del 1866 era convinzione comune tra il popolo, che presto sarebbe tornata la dinastia borbonica, tant’è che a Palermo si era sparsa la voce dell’imminente sbarco della flotta regia capeggiata dal colonnello dell’esercito borbonico Ferdinando Beneventano del Bosco palermitano (divenuto famoso per le sue gesta eroica contro i garibaldini)

“Intanto in città tutti sanno che è giunta una flotta e quantunque moltissimi possano vederla e riconoscerla, pure si sparge la voce che è la flotta inglese con a bordo un principe di casa Borbone.Altri dicono che è precisamente il principe Carlo residente a Londra ed ha con se truppe spagnuole comandate dal Generale Bosco” (V. Maggiorani, Il sollevamento della plebe di Palermo)
Nelle ricostruzioni agiografiche risorgimentali riguardanti la Sicilia, le viene spesso affidato un ruolo di secondo piano, se non addirittura messa in disparte, mentre in realtà è stata la grande protagonista e vera ispiratrice delle rivolte ottocentesche in Sicilia, sto parlando della classe baronale siciliana.
Accusata dal regio governo borbonico di esercitare privilegi principeschi di cui si riteneva indebitamente depositaria, di vessare e sfruttare i lavoratori della terra, il comportamento della Casta Baronale siciliana, fu involontariamente tra le cause per la quale la Sicilia, regione da sempre a forte vocazione agricola, nel 1861 aveva il record italiano del numero di occupati nell’industria in proporzione ai contadini (Francesco Saverio Nitti).
La reazione baronale, sfociò come è noto delle rivolte del 1848 e del 1860, servendosi peraltro degli stessi protagonisti politici che,  come verrà dimostrato più avanti, furono presenti e fondamentali nel processo di integrazione della Sicilia nella realtà italiana.
Farà comodo conoscere, per capire meglio le dinamiche che si svolsero in quegli anni, la lettera di lodi che Ruggero Settimo, noto traditore (era un ex ammiraglio dell’esercito borbonico) e protagonista dei moti del 1848, scrisse a Giuseppe Garibaldi:
“Illustrissimo Signore!
In questo giorno solenne, in cui la Sicilia è chiamata a compiere la costituzione dell’Italia, mi duole di non poter anch’io personalmente deporre nell’urna il voto per l’annessione al regno costituzionale del re Vittorio Emanuele e i suoi discendenti.
Ma non saprei neanco asternermi dallo esprimere il mio assentimento a questo stupendo fatto, che, formando l’Italia forte, indipendente e libera, assicura nel tempo istesso, la libertà e la prosperità dell’isola nostra.
Ora che i tempi sono maturi perchè la famiglia italiana riunisca in uno i suoi membri e tutte le sue forze, consumate soltanto in lotte fratricide, sarebbe strano il persistere in aspirazioni ed idee convenienti ad altre circostanze e a tempi andati.
Nelle molte vicissitudini della mia lunga vita ho la coscienza di aver voluto agire senza alcun personale riguardo, e soltanto per il bene della mia patria.
Colla stessa coscienza presento a lei questo mio voto, che spero sia conforme a quello di cotesti miei cittadini e di tutta la Sicilia.
Passo a rassegnarmi.
Malta, 21 ottobre 1860
Devotis. ed obb. servo
RUGGIERO SETTIMO”
Per suffragare la tesi che i protagonisti del separatismo del ’48 e del’60 fecero carriera politica nel neonato stato italiano abbracciandone l’ideale, cito una frase di Giovanni Gentile:
“Rarissini erano quelli che, come Lionardo Vigo, mantennero ferma, pur dopo il ’48 ed il ’60 la loro stretta fede autonomista ed ancora nessuno mormorò e brontolò contro il fatto compiuto come il Vigo, che è uno di certo dei rappresentanti più caratteristici della cultura siciliana di quel periodo”.
Ristretti erano d’altronde i margini di manovra della piccola elite di ideologi siciliani, realmente e totalmente aderenti ad una “Sicilia indipendente” di cui faceva parte a pieno titolo il Lionardo Vigo.
Anticlericale incallito (“nella nostra società la barbarie sono i Preti”) dopo l’Unità d’Italia scrive a Francesco Crispi:
“Non basta alla povera Sicilia avere imposta 40 anni la legge napolitana, buona o trista; deve ora sentire la voce di un altro padrone tricolorato, deve sentire ora una voce più lontana?”
Ma il politico di Ribera, è l’interlocutore sbagliato: noto traditore, ex rivoluzionario garibaldino di fede mazziniana divenuto presidente del Consiglio del Regno d’Italia, Francesco Crispi si rese famoso per aver represso nel sangue il movimento dei Fasci Siciliani.
Nel Parlamento Italiano,  gli unici che mantennero nei loro ideali il lume dell’Autonomia furono i cattolici Emerico Amari ed il barone D’Ondes Reggio, anch’essi protagonisti nei moti del ’48 e del ’60. Peraltro costoro non facevano parte di una “corrente regionista” esclusivamente sicula (di cui oggi alcuni storici suppongono, esagerandola, l’esistenza) ma federalista in generale.
I due politici, tra la folta pattuglia dei deputati siciliani, rappresentavano un’ assoluta minoranza, per dirla breve erano solo in due (D’Ondes Reggio si ritirò dalla politica a seguito dell’invasione dello Stato Romano, mentre l’Amari rimase deputato appena un anno) a tenere alto il vessillo del Regionismo.
D’altronde la prova che il movimento regionista non fu mai ne trasversale ne strutturalmente organizzato è che, pur essendo tantissimi i separatisti sessantunini e quarantottini siciliani andati al governo, la Sicilia dopo l’unità d’Italia perse anche quelle prerogative autonomistiche, che invece i Borbone avevano sempre preservato.
Di più, gli stessi separatisti divenuti unionisti spensero ogni residuo focolaio autonomista, come fece appunto il Crispi.
“…Le realistiche prese di coscienza di alcuni liberali, citiamo tra tutti Michele Amari, che con il loro progrediente unitarismo misero in minoranza gli irriducibili federalisti come Emerico Amari” (G. Bentivegna, Filosofia civile e diritto comparato in Emerico Amari)
D’altronde già nel 1848, lo stesso Leonardo Vigo deputato nel parlamento rivoluzionario di Palermo, ebbe di che lamentarsi nei confronti dei colleghi parlamentari:
“La maggioranza a modo di gregge seguiva gli italici demagoghi o sogni d’inferno della combinazione della Sicilia con l’Italia, elevando Roma a capitale. Occorreva trarre la Sicilia dalla servitù di Napoli, ma senza farla serva di Roma o Torino. A quei Donchisciotti politici, a quei maniaci demagoghi italici che lavorano per l’annessione avrebbero preparato il ritorno di Ferdinando”
Così,nella seduta del 26 luglio, quando il Vigò sentì dire che la Sicilia avrebbe dovuto adottare la lira, balzò in piedi furente (siamo sempre nel 1848) urlando:
“Se la Lombardia e la Venezia adottarono la moneta piemontese ne ebbero ben ragione, perchè formeranno in avvenire un sol regno; ma non può altrettando dirsi per la Sicilia, la quale dovrà avere la moneta propria”
(C. Cosentino, Lionardo Vigo Acireale, la Sicilia)

Davide Cristaldi


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